Tendenze design: esotismo virtuale
Pamela Albanese - TosiLab
Le forme classiche sono nel panorama architettonico quanto di più noto, poiché sparse non solo sul territorio italiano, ma in gran parte del mondo occidentale, grazie alla spinte postclassicistiche che ciclicamente hanno caratterizzato la storia dell’arte. Non bisogna stupirsi se il classico di tanto in tanto si riafferma con forza.
L’esatto opposto di questo scenario vede protagonista, nell’ambito delle arti applicate e delle discipline visive, la diffusione di forme, effetti, colori ed echi che derivano dalla composizione di elementi con programmi digitali e strumenti per la stampa tridimensionale. È così che entra a far parte del nostro panorama di possibilità un nuovo gusto, che non è associabile a nessuna cultura del globo terrestre.
Si tratta del “pianeta virtuale”, un immaginario per noi comprensibile perché lo abbiamo già assimilato grazie alla cultura visiva contemporanea. La ragione è una: il linguaggio dei software è portatore di estetiche capaci di restituire geometrie realizzabili solo con sistemi di calcolo automatizzato. Questo metodo digitale è manipolativo, poiché decostruisce e corregge con disinvoltura le forme semplici. L’assunto di base è che le possibilità aperte dalla convergenza del reale con il digitale ci consentono di sviluppare nuovi codici grazie ai quali si stanno creando cifre stilistiche inedite, ridefinendo le estetiche di prodotto e gettando le basi per un “esotismo virtuale”.
Le prospettive high-tech mutano i cardini del tradizionale ciclo del design industriale basato su progetto-produzione e distribuzione-consumo. Le idee vengono sempre più spesso condivise su piattaforme web da più persone che discutono insieme per poi dar origine a tante strade diverse. In questo quadro di condivisione, i linguaggi e i prodotti non sono più univocamente offerti dalle aziende/designer ai consumatori/utenti, ma sempre più spesso nascono dall’interazione reciproca fra autore e destinatario. In tale scenario il fenomeno più eclatante è l’Open Design, un archivio di documentazione sorgente di prodotti di design reso disponibile in piattaforma digitale, in modo che chiunque possa analizzare, variare, prototipare, produrre e distribuire un oggetto basandosi su tale documentazione.
In particolare, germogliano florilegi di decori eccentrici: simmetrie stravaganti ed espedienti compositivi sono gli ingredienti di un design che si riappropria dell’uso spiritoso del colore come punto di partenza tra ricerca e sperimentazione. I linguaggi espressivi fra arte e grafica esaltano le illusioni ottiche. Nei tessuti proliferano motivi floreali stravaganti nati da ricami che sbordano dal tessuto planare, dando l’illusione del movimento. L’artista site-specific Elena Manfredini altera la percezione di spazi pubblici o edifici urbani con pattern tridimensionali e decori che creano originali landscapes spaziali.
Oltre ai richiami tecno-estetici al regno vegetale, l’esotismo coinvolge anche gli organismi cellulari e la loro naturale flessibilità geometrica: molti materiali tecnici si ispirano alle strutture organiche di animali come i nidi d’api, le livree degli insetti, epidermidi varie, squame e poligoni irregolari che compongono le pelli dei rettili.
Nell’interior design si rivisitano i motivi della trasparenza attraverso le logiche digitali. Ampio spazio quindi all’interazione di riverberi perlati, dischi riflettenti, bagliori di luce naturale ispirati ai mondi sottomarini, opalescenze oniriche che creano scintillanti effetti olografici (si veda l’uso del vetro che fa Glas Italia nella collezione Shimmer disegnata da Patricia Urquiola).
L’Academy of Design and Craft di Gothenburg gioca con la capacità percettiva del fruitore e lo sfida a capire cosa è reale e cosa solo un effetto ottico-digitale intorno a (Un)Spaced, un mobile composto di vetri traslucenti.
Uno degli esempi più emblematici sono poi i progettisti di New York Aranda/Lasch che mettono insieme software generativi di forme a eleganti produzioni artigianali per realizzare architetture e arredi. Nascono strutture che ci ricordano la grammatica e le composizioni del cyberspazio, che ormai siamo in grado di riconoscere poiché sono state assimilate dalla nostra cultura visiva. A volte si presentano come la scrittura nel corpo dell’oggetto di un segno soft derivato dal layout visivo delle interfacce grafiche. Altre volte invece prendono forma in una specie di scontro meno pacifico tra digital e materico. Le lampade della collezione A Greater Scale di David Taylor per la BERG Gallery di Stoccolma sono l’unione di elementi bidimensionali precisi come figure geometriche a blocchi materici ruvidi e corposi. L’effetto è di giustapposizione fra bidimensionale lineare-definito versus tridimensionale massiccio-imperfetto.
- Leggi l'articolo completo pubblicato su Ceramic World Review 120/2017
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